Quando
si torna da un viaggio, da un periodo di mesi (o anni) vissuti in un
posto prima sconosciuto, ti inizi a porre alcune questioni basilari:
Mi ha cambiato questa esperienza? E se sì, come? Perché mi
avrebbe dovuto cambiare? Dipendeva da dove sono andato? Dalla ggente
che ho incontrato sul mio cammino? Chi sono? 'Ndo vado? Che faccio?
Dio è la salvezza? La risposta dentro di me è sbagliata? A STRONZI!
Al
di là del fatto che sono appena tornato in terra natìa, non
per molto, queste domande di filosofia spicciola, questi inutili
pipponi esistenziali che mai porteranno a nulla di buono, mi hanno
sempre accompagnato.
Ma,
più che altro, prendendo anche spunto dalla definizione di
Psicogeografia (ok, riduco studi e studi e
studi ad una definizione che utilizzo un po' come minchia mi pare), mi
hanno sempre accompagnato altre domande, più specifiche:
chi
sarei ora, in questo preciso momento, se fossi nato in un altro
luogo? Se fossi cresciuto in un altro ambiente? Se avessi frequentato
altre persone? Se non coniugassi bene il congiuntivo? Se non avessi conosciuto e vissuto con la più grande
comunità di italiani nel Mondo, gli Andriesi?
Tanto
per cominciare, non parlerei andriese (a volte mi parte in default, a
volte mi scambiano per uno di loro, a volte ho crisi d'identità) e
non avrei, ora in questo preciso istante, sulla mensola sopra la mia testa, un dizionario
italiano-andriese (l'inquietante realtà è che
tale Riccardo Cotugno, non so se parente di Toto, coadiuvato dalla
Forni Editori di Bologna, sia riuscito a pubblicare questo piccolo
Bignami murgiano di color celeste), trovato da qualche parte, in
qualche intercapedine di muro della mia vecchia casa bolognese, magari vicino all'intercapedine dove si narra sia sparito anni fa un furetto ("la leggenda del furetto scassacazzi sparito nel nulla").
"U'iandrU'iandrU'iandr!" |
Non
so a cosa mi possa servire tutto ciò, ma per anni sono stato
plagiato.
Mi
hanno costretto a vedere spettacoli dialettali al cui confronto il
Finlandese è una lingua comprensibile, sentire tutti i cori della
Curva Nord della (fu) Fidelis Andria, assistere impotente a
retrospettive degli idoli regionali Toti&Tata, ma anche a film e
spot doppiati in dialetto (ammetto che, in verità, le ultime due cose mi
divertono ancora oggi).
Provate
voi a cantare 127 Abarth degli Oesais a memoria, poi ne
riparliamo.
Tutto
questo preambolone, perché è tempo di bilanci, sempre 'sti
mini-bilanci di 3 mesi in 3 mesi.
La
mia vita sta diventando una sorta di trimestre scolastico.
Ogni
tot di settimane (di solito 13/14), di ritorno da qualche
esperienza/palliativo (data dalla depressionedanonlavoro, descritta nel link da Valerio Mastrandrea) non so in quale
parte del globo, non so a fare cosa, mi ritrovo come in un incontro del liceo tra prof e genitori, in cui io sono i Miei e la mia
coscienza/bilancio dell'esperienza sono i professori:
-
allora come mi va, come mi va il cellone della casa, lei è il
professore della materia “a quanto è servito il 450esimo stage”, sì?
- Si, sono proprio io in carne e coscienza/bilancio. Mah guardi gli ultimi mesi non serviranno praticamente ad un cazzo, però suvvia, ha
conosciuto gente interessante, fatto belle serate, lasciato bei
ricordi, ecc, ecc. Certo signò non mi parli di lavoro che sennò le
devo fà una pernacchia in faccia.
Granada
non mi ha cambiato. Proprio no. Oramai il mio essere è così (non)
definito che non ha certo bisogno di essere cambiato.
Però,
in un certo senso, mi sento riaffermato. Mi sento riaffermato in
quello che ero, mi sono dimostrato che sono ancora capace di fare,
dire, baciare, (farmi) apprezzare, emozionarmi per cazzate e non
emozionarmi per cose serie. Ridere del nulla e salutare un bambino
che ti sorride dal finestrino del filobusse ricambiandoti il ciaociao alla Teletubbies.
Per
un po' di tempo mi ero perso, non ero io. Mi sono ritrovato.
Granada
è stata come una spingitrice di cavalieri, solo che in questo
caso non spingeva cavalieri o subbaQQUI di Guzzantiana memoria, ma
solo me stesso.
Mi ha portato, psicogeograficamente, alla deriva senza un meta.
Dovreste vedere solo il percorso fatto per non arrivarci, alla meta, e capireste.
Quasi la stessa metafora usata da Valdano su Juan Roman Riquelme:
"Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un'autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi."
Ecco, se dovessi fare un paragone estemporaneo calcistico/geografico, Granada è un po' Riquelme: apparentemente indolente, lenta, ma con scorci visivi e di vita abbaglianti e irripetibili.
Granada mi
ha rimesso in moto, come l'Argentina un anno fa. Poi mi ero fatto
ingolfare per l'ennesima volta.
Ora
non succederà più.
Peccato
sia già finita, cazzo sì, se acabò.
Mi
sto abituando a raccontarmi in poco tempo, ad affezionarmi in maniera
fine a sé stessa, all'idea che certe facce a me care le vedrò “a
tempo”, agli arrivederci, agli addio, ai “ma sì ci vediamo, ci
sentiamo, oh non facciamo che non ci vediamo a Capodanno”,
all'andarmene quando inizio a sentire un luogo come casa mia.
Mi
sto abituando ad arrivare in un posto già sapendo che me ne andrò
presto.
Mi
sto abituando a vivere intensamente 6/7 mesi all'anno, per poi
vivermi gli altri in attesa.
E
quindi niente, di nuovo ai box, aspettando la prossima chiamata.
L'importante
è non rimanere troppo fermi, mi dico.
Ma stavolta non mi faccio bloccare.