Richard Bach
Avevo
un frigo con tante calamite, di tante città diverse, comprate da
tanti diversi coinquilini che erano stati nelle tante città diverse
per vacanza, amore, piacere, Erasmus (quindi scopare).
Un
giorno, il giorno di ordinaria follia, chiusi gli occhi e ne estrassi
una.
La
calamita, secondo la sua propria natura, mi avrebbe “attratto” da
qualche altra parte.
Australia.
Minchia
troppo lontano.
Ne
riestrassi un'altra.
Australia.
Ma
quante calamite dell'Australia ci sono? Due su quaranta. Delfino Destino?
Vabbè
ritento, pensai.
Kazakistan.
Me
sa va bene Australia và, dall'altra parte del Mondo e con lo
scarico che scarica al contrario.
Dovevo
scappare, dovevo provarci e avevo paura di farlo.
La
mia vita scorreva barcamenandomi da una precarietà all'altra:
lavoricchiavo, amavo e odiavo, vedevo gli stessi luoghi, le stesse
persone e abitavo oramai da anni in un casa che aveva le sembianze di
una fermata di un bus.
La
casa era la fermata e il bus un'altra meta.
Tutti lo prendevano in orario tranne me.
Mi
cacavo sotto solo all'idea.
Allora
perché lo faccio? Per necessità, voglia di stabilità, spirito
d'avventura?
Per
paura, pura paura.
Ché, arrivato a 30 anni e più, l'asticella, in mancanza d'altro, bisogna
pur alzarla.
E
ricominciare da zero per qualcuno è da stimolo e fomento, per me è
solo terrore dell'ignoto, del non capire una parola (visto che il mio
inglese è a livello Aldo Biscardi).
Ma,
si sa, da denghiu nasce thank you e poi anche i più
fessi ce la fanno, perché io non dovrei?
Lessi
da qualche parte che la paura serve per essere esorcizzata,
sconfitta.
D'accordo
in parte, se una paura la sconfiggi, ne arriva subito un'altra: per
esempio, e spero sia il mio caso, quella di tornare.
Ho
solo bisogno di cambiare paura. Di poterne gestire un'altra,
di un'altra sfida cacante sotto.
E
poi, diciamocelo, fa figo dire “mollo tutto e vado in
Australia”.
Nel
mio caso no. Nel mio caso mi sento in colpa di non aver trovato
l'Australia in Italia, di dover abbandonare affetti, abitudini
sociali, gastronomiche, economiche; e poi c'è la routine puttana,
che odio e di cui nello stesso tempo non posso fare a meno. Se non
altro perché la conosco.
Ora
sono in aeroporto.
Aspetto
la chiamata del mio volo di duemila ore con 4 scali incorporati.
Nei
giorni scorsi ho salutato tutti, ho festeggiato l'addio, o dato
l'addio ai festeggiamenti, non l'ho ancora capito.
Appuntamenti
su Skype e su Whatsapp e “dai che sto un annetto e
poi torno”, che cosa è un anno se non un apostrofo rosa tra le
parole chi cazzo e me l'ha fatto fare.
Non
so dove dormirò (sì, in ostello per i primi giorni, ma poi), non so
di cosa camperò, non so chi conoscerò, non so cosa farfuglierò,
non so nemmeno dove mi stabilirò. E se poi mi trovo male, e se poi
me ne pento?
Dai
andrà bene su su, ho tanti contatti di amici di amici di non amici
di conoscenti che sicuramente mi faranno sentire come a casa mia.
Ma
io a casa mia stavo demmerda.
Non
ne esco più.
Hanno
chiamato il mio volo, mi devo imbarcare.
Ora
scappo scavalcando con un doppio salto mortale rovesciato il metal
detector, oddio devo andare al cesso, mi scappa da cacare, la pipì,
ho le mie cose, cazzo sono un uomo non posso averle.
Va
bene, spegni il cervello stronzo.
Mi
imbarco. Mi sistemo nel mio posto.
Togliendomi
la giacca, noto nella tasca interna un bigliettino.
A
parte il fatto che ignoravo di avere una tasca interna nella giacca,
è datato 26 novembre 2013, oramai anni e anni fa.
È
di una persona speciale, la mia migliore Amica, emigrata proprio quel
giorno, proprio in Australia. Lei aveva le mie stesse paure, le
stesse paranoie.
“Ciccio,
non
aver timore,
ce
la farai nel modo in cui ce l'ho fatta io,
dimostrando
a tutti che bella persona sei,
sii
sempre te stesso.
Nuni"
Ciao
Amica,
a
presto
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